Quando alla fine degli anni ’80, visitando Vienna, entrai al Palais Lichtenstein per visitare la collezione rimasi sorpreso da una mostra allestita da un artista francese allora di moda: Garouste. La sorpresa non fu tanto per la sua pittura molto nota agli addetti né per il suo grande formato lì esposto, bensì per una serie di piccole sculture in bronzo che facevano da pendant ai quadri. Le trovai invece autonome dalla pittura di Garouste e molto accattivanti, sembravano scene surreali, alcune legate alla tauromachia e molto filiformi, verminose ma appunto per questo intriganti. Esse si muovevano intorno alla vita nascente delle cose e quindi embrionali. Erano nuove nel loro genere e Garouste confermava la sua qualità di scultore.
Enorme fu quindi la mia emozione quando mi ritrovai davanti a un gruppo di sculture dell’artista Domenico Castaldi nella sua casa. E segno del destino, quando chiesi la data di queste opere ritenni essere quella di appartenenza allo stesso periodo di quelle di Garouste. Domenico Castaldi non conosceva né conosce lo scultore francese.
Quindi il suo fu un lavoro maturato dentro un progetto scultoreo che apparteneva a quel tempo sia per carattere che per unità di stile e apparentato alla storia dell’arte di tutti i tempi. La visionarietà surreale delle scene costruite attorno alla sua scultura nascono dentro una letterarietà donchisciottesca ma allargata a una percezione del tempo casuale non relativo e determinatistico.
La sua casualità guarda all’indietro anche se il filiforme gli fa attraversare l’esperienza già di Giacometti: egli guarda e si ricollega direttamente agli Etruschi. Ciò risulta evidente dal gruppo di disegni, elemento questo embrionale mutevole dell’idea iniziale. La dilatazione del cavaliere, così come quella del cavallo o del singolo guerriero sono allargamenti della materia nel tempo. Il suo è un espandersi più che un restringersi come in Giacometti. Il suo, della materia, è un contorcersi più che un plasmarsi.
Questi guerrieri e cavalli che a volte formano dei gruppi teatrali che di certo rimandano al Don Chisciotte ma con una vena teatrale napoletana che deriva dalla conoscenza che Castaldi ha della scenografia “popolare e barocca” del presepe napoletano seicentesco.
Questo gruppo di opere mi ha colto di sorpresa all’inizio poi dentro di me è maturata la necessità di collegarle e situarle in un contesto di post modernità che le rende nuove e mi fa gridare allo scandalo, questo si vecchio, di una storia che dà sempre ai soliti noti mentre toglie agli ignoti.
Giustizia di penna vuole che venga recuperato e portato alla luce un nucleo di opere e un valore che altrimenti sarebbe rimasto perduto e ignoto. Tutto questo non tanto per testimoniare il nostro tempo bensì a dimostrazione di una capacità e sensibilità artistica che altrimenti avremmo disperso, mentre così possiamo rilanciare e dare fiducia, meglio certezza, a un lavoro degno di nota e di tempo necessari all’affermarsi di un talento altrimenti perduto per mancanza di fondi o , che è peggio, per miopia critica.